Il maiale è il suino domestico inteso come fornitore di carne e salumi. Il termine latino di origine, maialis, è legato all’abitudine di sacrificare alla dea Maia un porco (porcus), termine connotato, ancora più dell’altro, in senso negativo.
Nelle antiche tradizioni (latina, greca, celtica), il maiale era considerato un buon fornitore di carne, alla stregua di altri animali. Altre e diverse culture, antiche e recenti, lo hanno al contrario “demonizzato”, bollato come animale impuro e quindi bandito dall’alimentazione. Arista e prosciutto interdetti dunque per brahmani, ebrei, musulmani.
Dal punto di vista gastronomico, i trattati italiani dal Trecento al Settecento, di destinazione sociale alta, quasi ignorano il maiale, che conquista larga popolarità negli ultimi due secoli, specie presso le classi umili, che mai ne avevano sottovalutato il valore alimentare primario (spesso unico) e grazie alla nascita della manualistica culinaria divulgativa e popolare.
In quanto alle odierne crociate dietiste contro il maiale e il grasso che la povera bestia si porta dietro (e dentro), si sospenda il giudizio e si dia voce a Giovanni Tamburini, quando, un po’ per celia e un po’ per non morire, così si esprime: “Qualcuno ha mai calcolato il rapporto gioia (o appagamento) fratto trigliceridi per vita media? Se diamo un valore molto alto alla gioia in funzione di numeratore, la vita media…si allunga!”
“Suino: Sottofamiglia di mammiferi, che si identifica nel maiale, animale domestico allevato dall’uomo fin dai tempi piu antichi. Anche oggi mantiene una posizione di primaria rilevanza, dovuta al riconoscimento delle sue eccellenti qualità dietologiche e nutrizionali. Forti consumatori di carni suine risultano essere i Tedeschi, con quasi 60 kg pro capite all’anno; in Italia il consumo è di circa 24 kg pro capite.
Il maiale rappresenta l’animale alimentare per eccellenza, dato che si utilizza tutto; carne, grasso, visceri, sangue, polla e setole.
Fra le molte razze suine italiane vanno ricordate: la “Emiliana” di Reggio e Parma, la “Lombarda”, la “Macchiaiola”, la ”Romagnola”, la “Perugina” e altre ancora, oggi quasi completamente scomparse e sostituite da razze importate dall’estero. Tra queste le più importanti sono la “Large White”, la “Landrace”, la “Poland China”, l”‘Hampshire”.
Soprattutto la “Large White” è molto apprezzata per la precocità, la fecondità, la prolificità e l’alta resa all’ingrasso e alla macellazione. I suini di questa razza e gli incroci derivati “vengono macellati sull’anno di età circa e al peso di 140-150 kg, fornendo le carni per l’industria salumiera italiana.” (da: Grande enciclopedia illustrata della gastronomia. A cura di Mario Guarnaschelli Gotti. Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1990)
Il suino viene in genere sezionato in undici parti: coscia, scannello, lombo, coppa, spalla, pancetta, petto, stinco, guanciale, lardo, sugna (è diffusa all’interno della pancia).
da: M.Cesari Sartoni-A.Molinari Pradelli, La cucina bolognese (Roma, Newton & Compton editori, 1996)
“Tra le abilità artigianali bolognesi, quella più nota riguarda la lavorazione delle carni di maiale: saporite e profumate, ma soprattutto economiche”
La razza suina bolognese più tipica aveva corpo lungo e ben sviluppato, con setole rade e corte, il manto cutaneo rosso carico, tendente al viola: una varietà che ingrassava facilmente, tanto da raggiungere in pochi mesi il peso di due quintali.
Ieri il maiale cresceva libero, al pascolo o nelle anguste porcilaie di campagna, oggi per lo più vive in allevamenti specializzati, per esser accudito con cura, tanto nella riproduzione, come nella crescita.
Un’antica solennità bolognese: la Festa della Porchetta. Si iniziava con una corsa al palio o una giostra, seguita da un’imponente realizzazione scenica con azioni mimiche e musicate, oppure giochi e gare di funambolismo. Al termine dello spettacolo il Legato, il Confaloniere e le altre autorità intervenute gettavano al popolo ogni specie di volatili, cui seguiva il lancio della porchetta (arrostita o bollita), accompagnata da brodo bollente. La folla impazzita lottava per il possesso di un brandello di carne, culminando nella brutalità più selvaggia quando dal palco gettavano monete e le relative preziose borse. Tutta la città partecipava a questo evento, che si svolgeva il 24 agosto, festa di San Bartolomeo.”
Salsamenterie… bolognesi.
“Stesa su due cavalletti, una superba mortadella, nella pienezza del suo quintale e mezzo, induce la mano a carezzarne il dorso, quasi fosse un divino, vivo e intero, porcello.” (da: Le delizie del divin porcello, di Riccardo Di Corato (Milano, ideaLibri, 1984)
“Per eccellenza salume tipico di Bologna, il suo nome trae curiosamente origine dal latino “farcimen murtatum” o “myrtatum”, che indicava originariamente una specie di salsicciotto di carne di porco, così detto dall’uso primitivo di condirlo con coccole di mirto, prima dell’introduzione del pepe. L’etimologia, secondo alcuni, è invece da far risalire allo strumento, il mortaio, con il quale la si preparava.
La vera mortadella, chiamata anche semplicemente “Bologna”, dovrebbe essere confezionata con puro suino; il 60% di carne magra (spalla, lombo o fondello) e il 40% di grasso di guancia, insaccata in una vescica naturale e aromatizzata con grani di pepe nero e talvolta ingentilita con pistacchi sgusciati. Generalmente si aromatizza con un’apposita miscela di spezie composta di cannella, semi di coriandolo, semi di carvi, noce moscata, chiodi di garofano, macis e anici stellati.
Si dovrebbero, in sostanza, utilizzare le migliori carni del maiale ripulite del grasso e dei nervi; carni passate al tritacarne più d’una volta, fino a ottenerne un composto finissimo. Alla quantità di carne magra va aggiunto un terzo del peso in lardelli di mezzo centimetro di lato, conditi a parte con un tre per cento di sale fine. Tutto l’impasto, poi, richiede il 4% di sale, il 4% di salnitro (sale minerale, nitrato di potassio), 1’1% di pepe in grani e, a piacere e più raramente, pistacchi sgusciati e spellati.”
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Una volta confezionata (in budello possibilmente naturale), la sua stufatura avviene attraverso speciali stufe a vapore o con calore indiretto, regolate intorno ai 100°, da dodici a venti ore, secondo la grossezza: è un’operazione delicata, che richiede degli specialisti, i cosiddetti “stufini”.
Un tempo per insaccare la mortadella si utilizzavano vesciche di bue di svariate capacità da 2 a 15 kg, e forse più. Su ordinazione si confezionavano anche mortadelle di 30 o di 50 kg, fino ad arrivare a un quintale, con le budella tagliate, cucite e montate a seconda del bisogno. Queste fette ampie, tagliate a mano con la coltellina, potevano raggiungere il diametro di quaranta centimetri.
Spesso e malauguratamente, all’impasto viene aggiunta polvere di latte, varie farine, o peggio additivi chimici (polifosfati).
Riassumendo, le caratteristiche di una buona mortadella sono le seguenti: assenza assoluta di polifosfati, vescica naturale (se di grandi dimensioni le vesciche possono essere cucite tra di loro), colore omogeneo, lardelli non separati dall’impasto, grana finissima, esclusiva aromatizzazione con pepe nero in grani (il profumo di aglio o la presenza di pistacchi non sono tradizionali); 40% di grasso solo di guancia; 60% di carne di maiale pura.
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La mortadella si serve come salume, affettata tra gli antipasti ed è ingrediente fondamentale di molti piatti bolognesi: dai tortellini agli stecchini alla petroniana, dalla mousse al polpettone.
Nei buffet spesso appare tagliata a cubi, insieme a scaglie di parmigiano reggiano e streghino.”
(da: M. Cesari Sartoni – A. Molinari Pradelli, La cucina bolognese (Roma, Newton & Compton editori, 1996)
Tamburini appartiene alla haute couture della gastronomia italiana, del genere di quella che, antesignano Luigi’s in Fulham Road, sta trionfando a Londra, in controtendenza rispetto alla crisi (vera o presunta o pilotata) della salumeria, della gastronomia grassa e, quindi, dei prodotti del maiale, grasso di costituzione e per antonomasia.
Fra i tanti prodotti che nei decenni hanno decretato la fama di Tamburini, il suo orgoglio sono stati da sempre i prodotti del maiale, quelli bolognesi, quelli emiliani, quelli nazionali.
Basti pensare alla venerazione, quasi pagana, con cui egli e gli avventori del Bistrot annesso al negozio, ammirano le attrezzature (carrucole e ganci) che pendono tuttora dal soffitto, a memoria dei giorni, non tanto lontani, in cui le mezzene fumanti, macellate da meno di mezz’ora, facevano ingresso in negozio, per essere lavorate e poi messe subito in vendita, sotto lo sguardo curioso e un po’ grand-guignol degli astanti.
Il maiale da Tamburini vuol dire tante cose, essendone un tempio consacrato, ma quelle che ne hanno fatto la storia e creato il mito, che varca i confini nazionali, sono i classici della norcineria emiliana e bolognese, che Tamburini, marchia, etichetta o comunque commissiona, su sue indicazioni tecnico-gastronomiche, a produttori scelti e da lui visitati almeno una volta.
I classici marchiati sono i cotechini, i cappellotti, gli zamponi, i prosciutti di Parma.
Questi sono precucinati durante tutto l’anno, ma nella stagione da ottobre a febbraio, insieme alle bondiole e alle salame da sugo ferraresi, sono freschi, da cucinare.
Altri classici etichettati o garantiti da Tamburini (prodotti per lui su sue indicazioni) sono naturalmente la mortadella, il salame felino, la salamella rosa bolognese, la salamella passita cruda, salsicce bolognesi, coppa di testa (testina) e coppone (lombo e pancetta), i ciccioli secchi, frolli e croccanti.
Il Mercato di Mezzo era l’angusta arteria che collegava il cuore della città con le due torri, sventrata sul lato meridionale nel secondo decennio del ‘900 per far posto all’attuale via Rizzoli. Intatta è rimasta la parte meridionale e con essa anche l’edificio ove anticamente si apriva l’osteria “li tre re”.